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DIARIO DEI GIORNI DIETRO LE SBARRE

testo di Donatella Alfonso

Quando entri in carcere, ti raccontano, scopri che ogni necessità, ogni desiderio o urgenza, deve passare attraverso la parola scritta. La “domandina” per poter ottenere tutto, usare le tue cose depositate al casellario, poter avere un blocco di carta e una biro per scrivere, ad esempio. E poi, la scrittura a mano come unico mezzo di comunicazione con l’esterno. “Abbiamo imparato tutte a scrivere o a riscrivere una lettera” mi ha detto M., una delle ragazze – l’età non conta, lo spirito riporta a esperienze comuni che danno la stessa classe anagrafica a tutte – che partecipano al corso di scrittura creativa alla casa circondariale di Pontedecimo.

Fa freddo, in carcere, quello di stare al fresco non è un modo di dire, i corridoi sono lunghi, in alcune stanze come le aule per fortuna ci sono stufette elettriche a mitigare il clima. Man mano che i mesi passavano, hanno sostituito le felpe con i pile, i poncho di lana, i cappottini; e gli stivaletti imbottiti, rumori leggeri lungo il corridoio del piano terra per arrivare e, con qualche imbarazzo all’inizio, un bel sorriso più avanti, all’appuntamento settimanale. Dove donne di mondi e paesi diversi raccontano e si raccontano attraverso le parole messe in fila. Come sempre accade, in tante ai primi incontri, poi un gruppo più ristretto, ma anche più appassionato, ha piegato ai propri voleri strutture sintattiche e soprattutto ricordi non facili.

Un pomeriggio A. ha letto a voce alta, scusandosi sempre “perché vedi, io in italiano non ho mai scritto” il racconto del suo Brasile lontano, le spiagge atlantiche, il samba. E altre hanno detto: “Ci hai portato fuori da qui per un po’, e’ stato proprio come viaggiare”. E B. è tornata, raccontando il papà che le insegnava a nuotare dalla barchetta davanti a Punta Vagno, a tuffarsi in quel mare che le manca tanto, “ma in fondo qui il mio mare è la doccia” scherza, e vedi che guarda oltre la finestra da cui però il mare non si vede.

Si chiama “La libertà di scrivere” il progetto che, d’intesa con Maria Isabella De Gennaro, direttore dell’unico carcere femminile in Liguria, coinvolge dallo scorso autunno un gruppo di donne detenute e che diventerà prossimamente -nel mese di marzo dedicato alle donne - un piccolo libro, con i disegni di una di loro ad illustrarlo: a testimoniare a loro stesse, prima ancora che a chi lo leggerà, che da un momento difficile della propria vita si possono riscoprire capacità e risorse che magari non pensavano di avere. Ma anche la consapevolezza di aver incontrato un mezzo – la scrittura – che ha permesso ad alcune di loro di guardarsi dentro con sincerità e profondità. Non più e non solo il diario dei giorni dietro le sbarre, non tanto le lettere con i familiari e le persone care, filo esclusivo ma faticoso per chi è abituato a vivere nell’epoca della continua interconnessione: anche la possibilità di guardarsi dentro mettendosi al di fuori di sé, con un’oggettività che serve a ravvivare ricordi ed esperienze.

Hanno scritto tanto, le ragazze di Pontedecimo. Hanno cominciato con il cercare di descriversi, in una “autobiografia in quindici righe”; hanno ragionato e discusso su cosa sia leggere un libro piuttosto che un giornale; hanno cominciato a raccontare, svegliando una fantasia magari accantonata tanto tempo prima, una giornata al mare tutta per loro.

Ma si sono misurate con un tema difficile, durissimo per alcune di loro: la violenza sulle donne. Provata sulla pelle, origine anche di molte vicende che le hanno portate lì dove sono ora. Sono state infatti invitate a mettere le loro frasi ad epigrafe negli eventi, promossi dalla Regione Liguria, legati alla Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne, il 25 novembre scorso. Quando è stato il momento di proporlo, le risposte sono arrivate come schiaffi: “Violenza…io la conosco bene, lo vedi il mio naso?” “Non dirlo a me, a me hanno sparato in testa due colpi, così…”. “A me non è successo, ma una mia amica sì…”. “Io con le donne ci lavoravo, ne ho ascoltate tante, di storie terribili”. Se sono qui è perché la violenza l’ho provata sulla mia pelle, cosa ti credi?”.

Ti vengono i brividi, ad ascoltarle. Perché c’è chi ha rischiato la vita e cerca di nascondere quell’incubo che torna alle labbra dietro un sorriso. Non è un esercizio accademico parlare di violenza con donne il cui percorso di vita – e spesso anche quello giudiziario – ha incontrato le botte, la prevaricazione, il sentirsi inutili, fragili, piccole e paurose. Non è facile tradurre in parole, poco importa se sono scritte di getto oppure pensate quando tornano in cella, - anzi in “camera”, come prevede la normativa linguistica ora in uso, che cerca di cancellare con le parole insieme alle pareti colorate, la fatica di essere recluse - con il tempo e la concentrazione necessarie per raccontare tutto questo. Quelle frasi, recitate da loro stesse e raccolte da Anna Solaro e dal laboratorio teatrale che il Teatro dell’Ortica svolge da anni nel carcere, sono diventate un documento audiovisuale, in cui sul nero profondo dello schermo si inseguono quelle voci, quelle parole. Uno schiaffo per chi ascolta:

“Questo è il mio spazio, non invaderlo. Questo è il mio corpo, non picchiarlo. Questo è il mio cuore, abbine cura. Questa è la mia anima, ti prego lasciamela”.

Non è stato facile parlarne, per qualcuna quest’esperienza si è tradotta nel ritorno di incubi addormentati da anni. Ma poi, hanno ripreso le biro e i blocchi – e alla fine, anche la tastiera di un computer per ricopiarli quando le pagine si sono moltiplicate – e ritrovarsi autrici. Di quella cura che è la scrittura, di quell’esperienza che è mettere insieme le parole. Quelle che volano fuori anche dalle sbarre. Ma anche lavorare in squadra sul progetto di ognuna e trasformare ogni incontro anche in uno scambio di idee, di opinioni, di vite.

Ilcarcere di Pontedecimo è in Via Coni Zugna, 32, 16100 Genova Telefono: 010 784320.

La fotografia è di teatrortica.it e rappresenta un momento di laboratorio teatrale con le detenute

mail: pontedecimo.genova@giustizia.it

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