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NOI CHE COMBATTEMMO L'ORRORE DEI MANICOMI


testo di Natale Calderaro, psichiatra Nel giorno in cui ricorrevano i 40 anni della legge 180, il 13 maggio 2018, veniva pubblicato e presentato al Salone del Libro di Torino “All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961” di Antonio Slavich, primo allievo di Franco Basaglia, Direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Genova Quarto dal 1978 al 1994. Coincidenza non casuale e di forte valenza simbolica. Perchè, se il cambio di paradigma che la nuova legislazione realizzava nella rappresentazione sociale e culturale della follia (non più “pericolosi a sé e agli altri”, come recitava la vecchia legge del 1904, ma soggetti con uguale diritto di cittadinanza), non vi è dubbio che questo mutamento prende l’avvio in tanta parte dall’esperienza basagliana di Gorizia.

Opera postuma, il libro di Slavich è il racconto autobiografico di quella vicenda, negli anni che vanno dal 1961, quando Basaglia diventa Direttore di quell'Ospedale, al 1968 con la pubblicazione presso Einaudi de “L’istituzione negata”, che diventa libro-culto di una generazione (in pochi mesi, ristampato più volte, ne vengono vendute 40000 copie). Su questa esperienza, che ha avuto rilievo ( non solo in ambito scientifico ) a livello internazionale, è stato scritto molto, ma è la prima volta che si narra di quei primi mesi e anni in cui prende avvio il lento e progressivo smontaggio di una istituzione manicomiale. Libro che presenteremo giovedi 16 alle ore 18 alla libreria Ubik di Savona io e Donata Bonometti, giornalista, in un incontro condotto da Renata Barberis. E il pomeriggio del giorno dopo un' altra presentazione del libro nella sede de Il Ruolo Terapeutico a Genova, in via Venti Settembre 32, alle ore 18,30 in cui sarò affiancato dalla dottoressa Viviana Leveratto e dalla dottoressa Rita Sciorato. Il libro quindi ha un valore storiografico importante, perché racconta di come può essere trasformata a piccoli passi progressivi, per “prove ed errori”, come dice Slavich, una realtà immobile, chiusa, segregante, anche violenta, come erano tutti i manicomi, anche quello di Gorizia. Qualcosa di trasformabile nel procedere dell’esperienza: l’apertura delle porte dei reparti, la partecipazione dei malati nelle Assemblee, “la comunità terapeutica”, alla fine messa in questione, nel momento del suo massimo successo, come uno stadio da superare, per incontrare il mondo reale, al di fuori delle mura. Così, un’attività oggettivamente priva di senso, come spostare dei massi da una parte all’altra dell’ospedale, diventa un momento di mobilizzazione, anche molto gradita dai pazienti, nel processo di apertura di quell’istituzione. Potremmo dire allora che il libro che racconta tutta quanta “Gorizia”, dai sui difficili inizi, può essere utilizzato come una sorta di manuale di come si può trasformare in progress un’istituzione mediante successivi attraversamenti, anche partendo da realtà arretrate, in cui non si avrebbe nessuna voglia di sostare. Questo è accaduto a tanti operatori che nelle diverse realtà in cui si sono trovati, “situati” a lavorare, si sono riconosciuti in quel momento di rottura, di cambio di paradigma rappresentato da “Gorizia”. E allora ognuno può narrare di alcuni passaggi nei vari attraversamenti. Nei manicomi si poteva far nascere dei bambini da partorienti con disturbi mentali. E questo era considerato normale, perché si era tecnicamente attrezzati ( ed era vero ! ) per un parto fisiologico. A un medico, in quella circostanza di guardia, da poco arrivato alla “Real Casa dei Matti” di Palermo, che veniva chiamato per la prossimità di un parto e che chiedeva se avessero chiamato l’ambulanza per l’Ospedale Civile, non lontano da lì, una suora “Capo reparto” rispondeva “rassicurante” che il giovane dottore doveva stare tranquillo in quanto non veniva richiesto il suo intervento operativo ma doveva solo apporre la propria firma a cose fatte.... E all’affermazione del medico, posta con garbo, che gli sembrava più sensato ricorrere all’Ospedale e non far nascere il bambino in manicomio, facevano seguito sguardi sempre più severi, in una tensione crescente, poi interrotta dal medico, (poteva far valere il suo potere formale prevalente sul potere istituzionale consolidato dalle abituali pratiche) dicendo con uguale severità : “Sorella, credo che lei abbia capito benissimo..deve sollevare la cornetta e chiamare l’ambulanza” . Nei manicomi poteva anche accadere che ci fossero reparti speciali per bambini, come nell’Ospedale Psichiatrico di Cogoleto e che venissero, come documentato dalle fotografie di Giorgio Bergami, legati nel letti di contenzione, bambini di 3 o 4 anni, in quanto magari un po irrequieti. Il massimo dell’insensatezza! Poteva anche accadere, all’Ospedale Psichiatrico di Reggio Calabria, che un ricoverato di piccola statura, dall’aria mite fosse ritenuto e chiamato “il muto” e che si potesse poi scoprire nella scarna cartella clinica che in qualche tempo aveva fatto il fotografo. Dopo silenzi prolungati nel tempo tra paziente e medico, una macchina fotografica, posta sulla scrivania nella stanza dei colloqui, uno scambio di sguardi tra medico e paziente e l’implicito invito a toccare quello strumento, abbia prodotto dopo un certo tempo, la scoperta che il “muto” non fosse muto affatto. Solo che non aveva avuto voglia di parlare in un’istituzione che racchiudeva solo corpi e dove erano scomparse le persone. Medici come Basaglia e Slavich, hanno insegnato come prima e dopo una diagnosi c’è sempre una persona, con la sua storia, che non è solo storia di malattia ma anche storia di vita. Di quella vicenda di cui parla il libro, cosa può essere ancora utile oggi ne parleremo negli incontri, considerando un momento non favorevole in cui crisi economica che si protrae, conseguente riduzione di risorse, involuzione culturale complessiva, determinano arretramenti nell’operatività dei servizi sanitari e anche dei serviziper la Salute Mentale.

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