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Fuochi, vischio, cubaite e paglia fresca. Il Nostro Antico Natale


testo di Paolo Giardelli

Per la particolarità di essere pianta che nasce sugli alberi e non a terra, al vischio nell’antichità sono stati attribuiti poteri magici di talismano portafortuna.

La vigilia delle feste natalizie tutti i Genovesi acquistavano il vischio da appendere alla porta di casa. Dall’entroterra genovese si andava a farne provvista a Bobbio (PC) e con i carri o coi muli si trasportava a Genova. Un carrettiere ricorda: «Io prendevo tanto freddo, dietro il vischio, perché lo si raccoglieva sugli alberi sotto il ghiaccio, per metterlo nelle ceste. Una volta abbiamo caricato il carro e nevicava. Abbiamo spinto due chilometri questo carro, tirato dal mulo, ma abbiamo dovuto desistere e tornare indietro. Una volta c’era una grossa quantità di vischio da vendere, venti, venticinque quintali, che si portavano da tutte le parti nelle feste di Natale».

Natale è una delle notti magiche dell’anno, notte di prodigi, in cui gli animali parlano, le erbe sono dotate di poteri straordinari, gli uomini interrogano il futuro per conoscere il loro destino, i morti ritornano sulla terra. Nella Liguria Orientale i bambini ponevano un piatto sul davanzale della finestra, in trepida attesa dei doni che un angelo dalle ali d’oro e la veste d’argento avrebbe deposto allo scoccare della mezzanotte. Regali modesti per i figli dei contadini: mandarini, aranci, noci, susine, fichi secchi. Gli stessi che ornavano l’albero di Natale, spesso un grosso ramo di alloro, mentre un rametto era infisso nel pandolce. In tutta la regione nel recarsi alla messa di mezzanotte, si lasciava una finestra aperta e una candela accesa, la tavola imbandita, il coperchio del bancale di farina e castagne sollevato e si rifacevano i letti con lenzuoli freschi di bucato per accogliere nel migliore dei modi il ritorno dei cari defunti.

La vigilia della Notte Santa era prescritto il digiuno, fino allo scoccare dei dodici rintocchi della campana della chiesa. Per distogliere i bambini dalle tentazioni e indurli a rispettare il divieto si raccontava del castigo toccato a Salomé ed alla figlia Erodiade, costrette a vagare senza sosta tutta la notte della vigilia di Natale nelle campagne, rinfacciandosi l’un l’altra la colpa commessa:

Pe ti muère! Per colpa tua, madre!

Pe ti, fía! U dià me porta via. Per colpa tua, figlia! Il diavolo mi porta via

S’avesse zazunun a vigilia de Dé-ná Se avessi digiunato la vigilia di Natale,

Foxia ‘nu andereiva in ca du dià! Forse non sarei finita all’inferno!

Nel Ponente, come nell’area lunigianese, era questa l’occasione per preparare il grano di Natale. Con mortaio e pestello riservati alla festa, si pestavano i chicchi in modo da staccare la cuticola, il rivestimento esterno, si mettevano a cuocere nel paiolo, appeso alla catena del focolare, insieme a pezzi di cotica di maiale e carne di agnello. Al ritorno dalla messa, tutta la famiglia si sarebbe riunita intorno al desco per gustare il piatto della tradizione. Tradizione analoga nell’entroterra spezzino l’ultimo e il primo giorno dell’anno. Un cibo dal valore simbolico: il chicco custodisce in sé la vita e nella bollitura aumenta di volume, un buon auspicio per i raccolti dell’anno venturo. Nell’entroterra imperiese, dolci deliziosi erano le “cubaite”, un impasto di miele e nocciole, posto dentro la sfoglia di due grandi ostie, scaldato sopra la stufa. Si possono tuttora acquistare nei negozi di qualche borgo, come a Triora. Simili gli “ubrin” di Pigna. Destinati in particolare ai bambini in queste valli della Liguria era un canestrello, che la mattina i bambini andavano a questuare, bussando alle porte delle case, ad esempio a Castelvittorio, in Val Nervia. Era accompagnato da semplici doni, offerti da padrino o madrina. Alle bambine spettava invece “a Marieta cu’ a cana”, sempre dello stesso impasto del canestrello, ma dalla forma di donna e infilzata in un pezzetto di canna, per poterla esibire.

Anche per gli animali era un giorno di festa. I bambini erano mandati nella stalla a cambiare lo strato di foglie e sistemare una lettiera pulita ed un soffice giaciglio; inoltre il gregge o il bestiame riceveva un pasto molto più abbondante del solito. In Val Fontanabuona e Val di Vara era costume offrire alle bestie un assaggio delle pietanze natalizie. Secondo la credenza popolare, allo scoccare della mezzanotte gli animali acquistano la favella, ma guai introdursi nella stalla per ascoltare le loro parole, perché l’intruso pagherebbe con la vita la propria curiosità. In questa notte satura di prodigi, anziani guaritori e guaritrici trasmettono ai prescelti il loro sapere.

Non era invece di buon auspicio nascere nella notte santa, perché si violava la sacralità dell’evento. Se a venire al mondo fosse stato un maschio, era convinzione sarebbe divenuto un licantropo, un uomo lupo, mentre, se il neonato era di genere femminile, una strega.

Nei giorni del solstizio d’inverno, il grande ceppo crepitava sul focolare e la comunità, come nella vigilia di San Giovanni Battista, si radunava in piazza per assistere all’accensione di grandi falò, chiamati, “u fögu du Bambin”, il fuoco del Bambino, perché si credeva scaldasse Gesù appena nato dai rigori invernali. La tradizione si è mantenuta specie in alcuni borghi dell’estremo Ponente. Usanze arcaiche e ampiamente diffuse in questo periodo freddo dell’anno, spiegate con la volontà di sostenere il sole nel suo corso nel cielo, o come rito di purificazione. A questo fuoco erano attribuite proprietà speciali: la cenere era sparsa nei campi per rendere fertile il terreno; in Val di Vara, con i carboni si segnava con una croce la fronte dei pastorelli, quando, nella stagione propizia, avrebbero ricominciato a condurre le bestie al pascolo. Una delle feste più importanti di Genova è il Confuoco, che il Casaccia nel suo Dizionario descrive così: «festino solito farsi la vigilia di Natale in Genova, nelle due Riviere ed in Corsica, e che aveva principio coll’accensione di un immane ceppo condotto da buoi».

Quanto al presepe, la tradizione è presente in tutti i continenti. In Italia la scuola presepiale genovese, attiva dal secolo XVII, rivaleggia in prestigio con quella napoletana e bolognese. La Natività è collocata nel paesaggio tipico dell’entroterra genovese, dove spiccano personaggi tratti dalla vita quotidiana: le donne del popolo, i pastori con le greggi, i tipici mendicanti, gli artigiani intenti al loro lavoro. Emerge e si distacca dagli altri presepi la figura della Madonna, rappresentata in abiti sfarzosi e con la corona in testa, perché Genova la proclamò nel 1637 regina della città.

(liberamente tratto da P. Giardelli, Il Cerchio del Tempo, Sagep, Genova 1991)

Lunedì 12 dicembre, alle ore 18, Via Silvio Lagustena 58G, nella splendida cornice del Monastero di Santa Chiara, di fronte alla chiesa parrocchiale di San Martino, presentazione del libro “La memoria ritrovata”, e concerto di musica popolare del coro “Le Vie del Canto”, diretto da Giovanna Ponsano. Si parlerà e si canterà di tradizioni liguri



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